Aggiornato il 03.11.2021
Il riferimento ai numeri in questi 20 mesi di pandemia è stato ossessivo come non mai. Sulla base dei dati – o sulla presunta base dei dati – sono state prese decisioni politiche, è stata fatta comunicazione, sono state indirizzati in poco tempo dei cambiamenti fortissimi nelle abitudini di tutti noi. Ogni giorno anche il cittadino italiano meno avvezzo all’analisi dei dati si è trovato a contare morti, contagi, a quantificare nella propria mente un rischio, come qualcosa di oggettivamente determinabile. Il punto è che non lo è: il rischio si misura in termini probabilistici. Il rischio è incertezza, e la prevenzione sfuma nella precauzione.
Che cosa le scienze sociali possono realisticamente pensare di aver capito da questo “esperimento” pazzesco? Che cosa ha funzionato e che cosa no nella costruzione della fiducia da parte dei cittadini, e perché? Il 29 ottobre si è tenuto presso l’Università di Roma “La Sapienza” un incontro dal titolo Il viaggio dei dati nella pandemia, tra datificazione, modelli previsionali e incertezze, a cui chi scrive ha avuto il piacere di partecipare come relatrice, insieme a Nino Cartabellotta, presidente di GIMBE e a Federico Neresini (Università di Padova). Accanto a noi alcuni discussant hanno animato la discussione: Attila Bruni (Università di Trento), Mario Cardano (Università di Trento), Alberto Marinelli (Sapienza Università di Roma) e Flaminio Squazzoni (Università degli Studi di Milano-La Statale). L’incontro è stato organizzato dall’AIS (Associazione Italiana di Sociologia) ed STS-Italia (Società Italiana di Studi su Scienza e Tecnologia), in collaborazione con SISEC (Società Italiana di Sociologia Economica) e SISSC (Sociologia, Cultura e Comunicazione).
Il problema principale quando si comunicano dei dati al grande pubblico è spiegare che non possono essere oggettivi, ma sono frutto di processi. Un dato è il suo metadato. Per ogni numero bisogna considerare sinfonicamente come è stato raccolto, quando, lungo che periodo, e avere chiaro che cosa non può dire. Servono competenze base non solo di statistica, ma soprattutto di comprensione della logica della conoscenza scientifica, per usare un’espressione non a caso scelta come titolo di una delle opere fondative dell’epistemologia moderna.
Per avere buoni dati servono – spiega Neresini – adeguatezza strumentale, nel caso della pandemia interoperabilità delle fonti di raccolta dati; pertinenza delle osservazioni degli esperti su questi dati; e affidabilità nella raccolta stessa. Un punto, quest’ultimo, che abbiamo imparato nei mesi scorsi non essere affatto scontato. Diverse regioni hanno dichiarato di aver avuto per diverso tempo profondi gap nella raccolta dei dati. Per non parlare della standardizzazione, quando si vuole fare un confronto. Non eravamo pronti: i dati che abbiamo iniziato a raccogliere nei primi mesi non erano abbastanza granulari, e soprattutto non erano dati di flusso, fondamentali per avere il polso di ciò che accadeva. È mancata la standardizzazione dei tamponi: non abbiamo mai avuto il tasso per 100 mila persone – ha spiegato Cartabellotta. Per mesi abbiamo fatto conti senza il denominatore comune e li abbiamo raccontati come dati oggettivi e non come frutto di processi. Salvo qualche realtà giornalistica medio-piccola, che però difficilmente può competere con il pubblico di Rai1 o di Rete4.
Le persone che cosa possono aver capito di tutto questo? Stando ai dati Istat https://www.istat.it/it/files/2020/07/Livelli-di-istruzione-e-ritorni-occupazionali.pdf più recenti, in Italia nel 2019 solo 6 persone su 10 fra i 25 e i 65 anni avevano almeno un diploma e una persona su cinque di questa fascia di età è laureata, una delle percentuali più basse d’Europa. Nel Mezzogiorno rimangono decisamente inferiori sia i livelli di istruzione (il 54% possiede almeno un diploma, contro il 65,7% nel Nord) sia i tassi di occupazione anche delle persone più istruite (71,2% tra i laureati, 86,4% nel Nord).
Significa che non ha senso nemmeno provarci? No: significa che il compito del comunicatore – giornalista o scienziato divulgatore che sia – deve fare i conti con questo scenario se vuole fare un lavoro realisticamente utile alla comunità.
Ma significa anche per chi lavora nella produzione del dato, come ha ben esposto Attila Bruni, confrontarsi con un fatto, invero poco considerato nei vari eventi che si sono susseguiti in quest’ultimo anno e mezzo (e chi scrive ne ha visti non pochi…): in Italia forse non manca tanto la cultura del dato, ma manca la cultura dell’amministrazione, la cultura del lavoro. Se l’infrastruttura non diventa il problema, continueremo a interrogarci solo sulla punta dell’iceberg.
Infine, la domanda delle domande, il fil rouge di questi 20 mesi: basarsi sulla modellistica per compiere scelte politiche che coinvolgono tutti i cittadini, come è stato fatto, è la cosa migliore? In che modo la modellistica dei rischi può essere gestita per garantire affidabilità e trasparenza anche agli occhi dei cittadini?
I dati della modellistica non sono solo dati incompleti o che necessitano del metadato per essere inquadrati: i dati dei modelli previsionali sono dati che di fatto non esistono – continua Flaminio Squazzoni - e che quasi mai si verificano nel mondo reale. Si tratta di simulazioni matematiche ancora più complicate da spiegare al grande pubblico, anche quando sono estremamente corrette.
Eppure, oltre alle modellistiche “istituzionali”, quasi chiunque aveva un modello nel cassetto ha colto l’occasione propizia della pandemia per cercare consenso e (perdonate) forse anche visibilità personale o per il proprio team. Il risultato è stata un’accozzaglia di modelli, talvolta contraddittori fra di loro, sparati sui media come “interpretazioni”, quando invece erano simulazioni. E si tratta di due cose molto diverse. Come sono diversi gli articoli caricati online in pre-print, dal frutto della ricerca pubblicata dopo un processo di peer review. “Fra le altre cose è mancata inoltre un’infrastruttura interdisciplinare di studio e condivisione dei dati e dei risultati della ricerca sociale” ha concluso Squazzoni.
E – aggiunge chi scrive – si è sentita la mancanza degli esperti delle scienze sociali fra i tanti scienziati che si sono alternati spingendosi per entrare nella telecamera o per riempire le prime pagine dei giornali.
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