Intervista al Dott. Fulvio Ferrara
Direttore del Dipartimento Medicina di Laboratorio, Genetica Medica e Anatomia Patologica del Centro Diagnostico Italiano
Ad oggi non esistono test in grado di fornire “patentini d'immunità” contro il
Covid-19. Le autorità lo hanno chiarito, spegnendo gli entusiasmi di chi sperava in un veloce ritorno alla normalità.
Nel campo della diagnosi, però, qualche significativo passo avanti è stato fatto. L'arsenale contro il Sars-CoV-2 si è arricchito di nuove armi, a cominciare dai
test sierologici, la cui messa a punto ha reso possibile, in concomitanza con l'inizio della fase 2, l'avvio di un'indagine epidemiologica che ci aiuterà a
comprendere quanto ha circolato il virus in Italia e in che percentuale la popolazione ha sviluppato una qualche forma d'immunità. Molte persone affette da Covid-19, infatti, manifestano una
sintomatologia blanda o del tutto assente, contribuendo al dilagare dell'infezione. Campagne di screening, perciò, sono state organizzate anche a livello locale per capire come muoversi.
Tra i Centri Regionali di Riferimento per test sierologici e tamponi riconosciuti da Regione Lombardia c'è il
Centro Diagnostico Italiano, che fin dall'inizio dell'emergenza si è messo a disposizione della Regione per l’esecuzione dei test su pazienti Covid-19 e soggetti a rischio identificati dalle ATS.
Il
Direttore del Dipartimento Medicina di Laboratorio, Genetica Medica e Anatomia Patologica,
Fulvio Ferrara, ci ha spiegato quali sono i limiti e i vantaggi degli strumenti diagnostici oggi disponibili e come possono essere utilizzati, in maniera combinata, per pianificare la ripartenza.
Esiste un test in grado di rivelarci se abbiamo sviluppato immunità o se siamo contagiosi?
Per il momento
non c’è un unico strumento in grado di darci tutte queste risposte. Possiamo però utilizzare i diversi approcci esistenti in modo concertato per avere le informazioni che ci servono.
Per capire cosa raccontano gli strumenti di screening oggi disponibili
possiamo immaginare la malattia come una pellicola di un film. Il
tampone “fissa un fotogramma”, ci dice cioè
se in quel dato momento siamo positivi al Covid-19 e se siamo contagiosi. I
test sierologici, invece, ci rivelano il resto, se abbiamo incontrato il virus
in passato e se abbiamo sviluppato degli
anticorpi per contrastarlo. Averli prodotti, però, se da un lato può assicurarci qualche tipo di protezione,
non scongiura il rischio di essere possibili fonti di contagio. Molti pazienti, infatti, impiegano molto tempo - anche 35-40 giorni -, per negativizzarsi. Esiste, poi, un periodo finestra di circa
7-10 giorni - da quando cioè il soggetto ha contratto il virus a quando compaiono i primi anticorpi - in cui il risultato fornito dal test è
falsamente negativo. Per queste ragioni, resta fondamentale l'esecuzione del tampone.
Quanto all'immunità che potremmo aver sviluppato, occorre tener conto che stiamo parlando di una malattia ancora poco conosciuta.
Non è passato abbastanza tempo dalla sua comparsa per poter dire che chi ha sviluppato gli anticorpi è protetto a lungo perché il periodo di osservazione è ancora limitato.
Cosa misurano e quali limiti hanno le tecniche di diagnosi oggi disponibili?
La metodica inizialmente utilizzata è la
Real Time PCR, una tecnica di biologia molecolare che consente di verificare la presenza del codice genetico del virus in un campione di saliva o muco prelevato mediante tampone. Il suo limite principale è che
necessita di personale specializzato per essere eseguita: se il campione non viene raccolto nel modo corretto può dare un falso negativo. Un altro problema è che occorrono
alcune ore per avere i risultati.
Per queste ragioni, oltre alla
difficoltà di reperire sufficienti kit e reagenti, il tampone non è stato fatto a tappeto a tutta la popolazione.
Un responso più veloce lo danno i test sierologici che ricercano diversi tipi di anticorpi presenti nel sangue: le
IgM, immunoglobuline prodotte nella fase iniziale della malattia che
segnalano un'infezione recente, le
IgG, che compaiono in una fase più tardiva e
possono garantire una qualche forma d’immunità, e le
IgA, presenti sulla superficie delle mucose dell'apparato respiratorio (cercate solo in un numero limitato di casi).
I test sierologici si dividono, poi, in rapidi e quantitativi. I
test rapidi richiedono il prelievo di una sola goccia di sangue dal polpastrello e danno un
responso binario, rivelano cioé solo
se ci sono gli anticorpi nel sangue oppure no,
senza fornire informazioni sulla loro quantità: dato necessario per capire se la malattia è in una fase iniziale o è in corso da tempo e se la persona ha abbastanza IgG immunizzanti da essere protetta.
Non forniscono, insomma,
una risposta riguardo all’immunità.
La possibilità di produrli in grandi quantità, a basso costo e senza una grande “expertise” ha portato sul mercato diversi di questi test, molti dei quali presentano un alto numero di falsi-negativi o di falsi-positivi (perché poco sensibili e specifici).
I
test sierologici quantitativi, invece, sono screening che necessitano di un prelievo di sangue e dosano in maniera più accurata e specifica le quantità di anticorpi IgM e IgG prodotti dall’organismo. Possono dirci
se è in corso un’infezione (ma solo se le IgM sono già comparse) e se abbiamo sviluppato una qualche immunità (in caso di IgG positive).
Per sapere se il soggetto è contagioso, però, come si è detto precedentemente, bisogna fare il
tampone. Sono, quindi, strumenti utili per condurre studi epidemiologici collettivi, ma non danno un'indicazione sufficiente a capire chi può fare cosa in totale sicurezza.
Effettuare un'Analisi quantitativa di acidi nucleici umani mediante PCR real time (RT-PCR) o tecniche assimilabili
Quali caratteristiche devono avere i test sierologici utilizzati su ampia scala nei laboratori di analisi del Paese?
Oltre a godere di un'affidabilità almeno del 95% e ad essere veloci, in base alle indicazioni del Comitato Tecnico Scientifico del Ministero della Salute, questi test devono essere il più possibile
sensibili e specifici. Devono, cioè, riuscire a cogliere anche piccole concentrazioni di anticorpi (IgM e IgG) - in modo da non risultare falsamente negativi - e rilevare le immunoglobuline legate al Sars-CoV-2
senza confonderlo con altri tipi di Coronavirus. Altrimenti, essendo questi
germi responsabili della gran parte dei comuni raffreddori, si produrrebbero moltissimi falsi positivi.
Quali sono gli obiettivi dello studio epidemiologico nazionale avviato in concomitanza con l'inizio della fase 2?
Lo
studio di siero-prevalenza, che coinvolgerà tra i 150 e i 200 mila cittadini di tutta Italia tra i 6 e i 90 anni - selezionati anche in base al sesso e all'attività professionale -, prevede il solo
dosaggio delle IgG, le immunoglobine prodotte in una fase tardiva della malattia. Serve, quindi, sostanzialmente a capire
quanto il virus ha circolato nel nostro Paese e in che percentuale la popolazione ha sviluppato una qualche forma di immunità al Sars-CoV-2.
Se il 60% circa del campione avesse prodotto le IgG immunizzanti, infatti, si potrebbe ipotizzare di aver raggiunto l'
“immunità di gregge”: cioè la capacità di un gruppo di resistere all’attacco di un’infezione verso cui grande parte dei membri è immune. In base alle stime dell’Istituto Superiore di Sanità, però, la maggioranza della popolazione non ha contratto il virus ed è quindi sprovvista di questi anticorpi. Il che significa che la condizione di “immunità di gregge” è ancora lontana.
Bisogna, inoltre, considerare che
Sars-CoV-2 è un virus con grandi capacità di mutare il proprio corredo genetico, ancor più del
virus dell’influenza, quindi l’immunità acquisita potrebbe rivelarsi transitoria, fino alla successiva mutazione dell’
RNA virale (l’RNA, o acido ribonucleico, è una macromolecola biologica, appartenente alla categoria degli acidi nucleici, che ricopre un ruolo centrale nella generazione delle proteine a partire dal DNA).
In che modo gli strumenti di screening disponibili possono aiutarci a “ripartire”?
Tamponi e test sierologici quantitativi
vanno usati in modo combinato, non essendo in grado da soli di fornirci tutte le risposte di cui abbiamo bisogno. A questo limite, si aggiungono i problemi di approvvigionamento dei kit e dei reagenti. Da qui la necessità di stabilire dei criteri di esecuzione: è importante, ad esempio, che l'atteggiamento di chi effettua il test vari
in base all'anamnesi del paziente.
Chi è
uscito dalla quarantena obbligatoria ed è risultato
negativo al tampone (o più precisamente ai due tamponi previsti per limitare il rischio correlato alla quota di falsi positivi), può essere
sottoposto solo al test sierologico per sapere se ha sviluppato immunità (almeno per un tempo non ancora precisato).
Chi, invece,
non ha manifestato segni e non è mai stato testato, dovrebbe fare
sia il test sierologico sia il tampone per sapere se in passato si è ammalato in maniera asintomatica, se ha sviluppato immunità e se è ancora contagioso. I test sierologici quantitativi, adoperati nell’ambito di studi epidemiologici su larga scala, come quello nazionale precedentemente citato, possono anche fornirci una stima delle persone colpite dalla malattia, della sua reale letalità e della sua distribuzione per aree geografiche, per fasce d'età e per categorie lavorative: indicazioni utili per
pianificare modalità e durata delle restrizioni e per organizzare la ripartenza.
CDI Milano Saint Bon - Analisi di Laboratorio