Aggiornato il 14.04.2021
La vitamina D è una vitamina liposolubile, fondamentale per la regolazione della calcemia, la concentrazione di calcio nel sangue, che svolge ruoli in numerosi altri processi dell’organismo.
Con il termine “vitamina D” si fa riferimento ad un gruppo di strutture chimiche che derivano da una struttura comune, il ciclopentanoperidrofenantene. Si tratta di 5 forme con strutture simili (D1, D2, D3, D4 e D5) le cui principali sono l'ergocalciferolo (vitamina D2), di origine vegetale, e il colecalciferolo (vitamina D3), di origine animale. In seguito ad esposizione alla luce solare, nei lieviti e nelle piante si ha la formazione di ergocalciferolo a partire dall'ergosterolo, mentre nell'uomo e negli animali si sintetizza colecalciferolo dal 7-deidrocolesterolo (7-DHC). Da questi composti deriva la 1,25-di-idrossi vitamina D o calcitriolo che è la forma metabolicamente attiva nell'organismo.
La vitamina D è un micronutriente, ne servono cioè piccole quantità per il funzionamento dell’organismo. Come le altre vitamine liposolubili viene accumulata nell’organismo nel tessuto adiposo e non è facilmente eliminabile. Questa caratteristica può da un lato conferire dei vantaggi, visto che permette la formazione di un “riserva” per le necessità dell’organismo anche quando l’assunzione non è elevata. D’altro lato, il non facile smaltimento potrebbe dare problemi di tossicità.
La vitamina D si assume attraverso l’alimentazione da diverse fonti, si trova:
Di fatto, alle latitudini temperate e per una normale esposizione al sole, in media l'80% della vitamina D resa disponibile all'organismo proviene dalla sua sintesi cutanea e solo il 20% dagli alimenti.
La storia della vitamina D ha inizio nel 1919 quando venne evidenziato da Huldschinsky che bambini affetti da rachitismo guarivano se esposti alla luce del sole. La struttura chimica della vitamina D viene identificata nel 1930 e negli anni Settanta del Novecento si descrivono i meccanismi biologici che portano alla sua attivazione.
Nell'anziano si mira innanzi tutto a rallentare la perdita di massa ossea e a ridurre il rischio di fratture. Per gli uomini e le donne di 60-74 anni, in assenza di dati specifici, si riconfermano i valori già indicati per la popolazione adulta. Per la fascia d'età >75 anni, tenendo conto che possono essere presenti un certo numero di individui anziani le cui necessità per la vitamina d sono particolarmente elevate, secondo un criterio di prudenza si adotta una un percentuale di vitamina D più elevata rispetto a quella della popolazione adulta, pari a 20 microgrammi/giorno.
Nelle donne in gravidanza si ha un aumento dei valori plasmatici di vitamina D a causa della sintesi placentare di tale molecola, mentre fattori indipendenti dalla vitamina d sono responsabili del trasferimento di calcio dalla madre al feto. Si suggerisce un apporto di circa 12 microgrammi di vitamina D al giorno per le donne in gravidanza. L’integrazione di vitamina D durante la gravidanza ha un effetto positivo sulla madre, con un possibile ruolo nella riduzione del rischio di pre-eclampsia, basso peso del nascituro e nascita pretermine. Non sono tuttavia disponibili delle evidenze cliniche sufficienti per stabilire il rapporto benefici/tossicità dovuto esclusivamente alla supplementazione di vitamina d in gravidanza, nella definizione della salute della madre e del nascituro. Pertanto, le linee guida dell’organizzazione mondiale della sanità non suggeriscono una supplementazione di vitamina D come regola generale per tutte le donne in gravidanza.
L’uso di integratori per sopperire al fabbisogno giornaliero di vitamina D deve essere attentamente ponderato. Dato il processo di sintesi della vitamina D, risulta chiaro che un buon approvvigionamento nei mesi Marzo/Aprile-Settembre in cui l’esposizione ai raggi solari è più elevata, possa costituire una riserva sufficiente di vitamina per i mesi inverali. Quando possibile, è meglio dare la precedenza all’assunzione della vitamina D (come di ogni altro nutriente) direttamente dall’alimentazione.
Esistono tuttavia delle condizioni, sia fisiologiche che patologiche, in cui sia necessaria una integrazione dell’assunzione di vitamina D.
Non tutti gli interventi in supplementazione producono reali benefici ed è importante farne uso solo in seguito a consiglio del medico. Per l’integrazione dei livelli di vitamina D sono disponibili in farmacia numerosi prodotti, che si possono assumere per via orale come gocce o capsule molli.
L’assunzione errata di integratori di vitamina D può portare ad effetti tossici ed è pertanto sconsigliato l’utilizzo di supplementazioni senza aver verificato prima un reale bisogno.
I numerosi benefici associati all’assunzione di questa vitamina sono spesso male interpretati e considerati quasi come un suggerimento ad aumentarne il consumo per limitare i rischi di malattie cardiovascolari e cancro.
Esistono sudi che mettono in relazione la vitamina D con lo sviluppo di cancro. In particolare, alcuni studi epidemiologici svolti negli anni 80 e nei primi anni 90 del Novecento hanno messo in evidenza la relazione inversa esistente tra l’esposizione alla luce solare e l’incidenza di cancro al colon e alla prostata. Data la stretta relazione tra esposizione solare e attivazione della vitamina D, si è ipotizzato il ruolo di quest’ultima nella protezione da diversi tipi di cancro. Dati preclinici su colture cellulari e studi animali confermano l’azione antitumorale della vitamina D. I meccanismi biochimici attraverso i quali la vitamina D svolge questa azione sono diversi e coinvolgono sia il metabolismo delle cellule tumorali, che il differenziamento in cellule metastatiche, o l’emissione si segnali extracellulari che modificano il microambiante tumorale. Processi come la proliferazione, l’apoptosi, l’autofagia, la neo-angiogenesi e la transizione epiteliale-mesenchimale hanno tutti potenzialmente la possibilità di essere controllati dalla vitamina D attraverso i recettori VDR presenti su numerose cellule (tra le quali anche quelle tumorali). In seguito al legame con i recettori, vengono attivati una serie di pathway biochimici che regolano l’infiammazione e attivano contemporaneamente cellule immunitarie nell’identificazione delle cellule tumorali.
Le variazioni di espressione genica che caratteristiche delle cellule tumorali fanno sì che queste ultime sviluppino meccanismi per sfuggire al controllo degli effetti della vitamina D. Dati i numerosi effetti cellulari di questa vitamina, indentificare che tipo e in quale momento venga deregolato uno specifico processo biochimico è molto complicato. Inoltre, strategie terapeutiche mirate ad aumentare i livelli sistemici di vitamina D potrebbero risultare tossiche per l’organismo, data la modificazione dell’equilibrio del calcio che ne deriverebbe. Sarebbe infatti necessario separare l’attività anti tumorigenica della vitamina D da quella di regolazione della calcemia. Attualmente sono in corso studi pre-clinici e clinici per verificare l’efficacia dell’uso della vitamina D come agente anti cancro.
Esistono studi che mettono in relazione i livelli bassi di vitamina D con l’insorgenza della depressione. Questo concetto si inserisce nel discoro più generale dell’influenza di fattori nutrizionali nell’insorgenza di patologie come la depressione.
Il meccanismo molecolare alla base del legame tra vitamina D e depressione non è però ancora definito. Si suppone che i recettori della vitamina D, presenti anche a livello delle cellule cerebrali, possano presumere un ruolo di stimolazione nei processi di sviluppo e differenziazione neuronale, e possibilmente della regolazione della loro attività nell’adulto. Un’ipotesi è il ruolo antiossidante della vitamina D che potrebbe proteggere dai danni e dalla degenerazione delle cellule nervose, migliorandone le funzioni. Dati numerosi effetti sul metabolismo e i numerosi target cellulari della vitamina D, non è ancora possibile identificare il meccanismo specifico dell’azione di questo micronutriente che porti (o contribuisca) allo sviluppo della depressione. I trial clinici svolti non supportano per il momento l’utilizzo di vitamina D come integratore per il miglioramento dei sintomi della depressione.
Un esempio recente delle numerose implicazioni della vitamina D sulle patologie si è presentato con la pandemia di COVID-19: gli effetti stimolatori della vitamina D sulle cellule immunitarie, l’azione protettiva di vasi sanguini contro gli eventi trombotici, l’inibizione della sintesi di ACE2, il recettore attraverso il quale il virus entra nelle cellule e un possibile ruolo nella protezione da infezioni respiratorie hanno posto questa vitamina sotto i riflettori come un possibile strumento nella protezione dall’infezione da SARS-CoV-2, anche in assenza di evidenze sperimentali e cliniche.
Sebbene sia dimostrata l’azione della vitamina D a livello del sistema immunitario, con una azione stimolatoria sui macrofagi e sulle cellule epiteliali respiratorie alla produzione di peptidi con azione antimicrobica e antivirale, non ci sono al momento evidenze sufficienti per confermare l’azione protettiva di questa vitamina verso l’infezione specifica da SARS-CoV-2.
Dopo l’inizio della pandemia, numerosi studi osservazionali sono stati condotti in vari paesi per verificare l’associazione tra bassi livelli di vitamina, infezione da SARS-CoV-2 e in alcuni casi, severità dei sintomi e del decorso della malattia: molti di questi studi hanno dato esito positivo. Bisogna tuttavia sottolineare che non sempre si è tenuto conto di fattori confondenti nella raccolta di questi dati. Molti pazienti con bassi livelli di vitamina D soffrivano infatti di diverse comorbilità, che potrebbero aver favorito l’infezione. Inoltre, i bassi livelli misurati nei pazienti COVID-19 potrebbero essere una conseguenza dell’infezione in atto, e non una delle cause. Infine, la supplementazione con vitamina D negli anziani che è risultata avere effetti positivi anche sull’outcome del COVID-19, potrebbe non essere specifica per la malattia ma legata ad un miglioramento generale delle condizioni dell’anziano che riceve un supplemento di una vitamina che sarebbe già raccomandato per la sua situazione.
Sono in corso diversi studi clinici randomizzati per verificare l’efficacia della vitamina D come agente protettivo verso l’infezione da SARS-CoV-2. In attesa dei risultati, è buona norma seguire le raccomandazioni generali per il fabbisogno giornaliero e l’esposizione ai raggi solari.
La vitamina D ha la funzione di regolare i livelli di calcio e fosforo nel sangue, attraverso la stimolazione del loro assorbimento a livello intestinale e la deposizione o rilascio dei due elementi dal tessuto osseo. I livelli fisiologici di vitamina D variano tra i 30 e i 60 ng/ml. La forma biologicamente attiva della vitamina D viene sintetizzata in seguito all’esposizione alla luce. La sua produzione è massima quindi nei periodi estivi alle nostre latitudini.
La vitamina D, essendo una vitamina liposolubile, si trova contenuta negli alimenti con una percentuale di grasso. Si trova in buone quantità nell’olio di fegato di merluzzo, in pesci grassi come l’aringa, il salmone, lo sgombro, e nel tuorlo dell’uovo. Quantità di vitamina D si trovano anche nei funghi, nei fagioli, nel burro e nel latte.
Ci sono evidenze pre-cliniche che buoni livelli di esposizione solare e vitamina D diminuiscano il rischio di insorgenza di alcuni tumori (colon, mammella, prostata). Sebbene la vitamina D intervenga in numerosi pathway biochimici di trasformazione tumorale, i suoi effetti positivi potrebbero essere dovuti alle buone condizioni generali dell’organismo quando essa venga mantenuta nei livelli consigliati, e non ad un effetto tipicamente terapeutico sulle cellule tumorali. Per prevenire l’insorgenza di tumori, è quindi raccomandabile mantenere uno stile di vita salutare e non aumentare i livelli di assunzione di vitamina D, una volta diagnosticata la presenza di un cancro.
Non sono disponibili studi definitivi che permettano di rispondere a questa domanda. Le evidenze cliniche indicano una associazione tra i livelli bassi di vitamina D e le infezioni di COVID-19, in alcuni casi quelle con un decorso più severo, ma non è possibile stabilire un rapporto di causa-effetto né tantomeno affermare che livelli elevati di vitamina D possano proteggere dall’infezione da SARS-CoV-2. La supplementazione di vitamina D non deve essere quindi interpretata come un metodo di prevenzione e protezione dal COVID-19.
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